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Il fattore umano di Ana Ros a identità Golose 2018

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Ho incontrato Ana Ros per la prima volta nel 2014 mentre partecipavo a una manifestazione gastronomica a Tarvisio, EinProsit, che da quel momento sarebbe diventata la mia preferita. Ci avevano annunciato una cena a circa 2000 metri cucinata dalle mani di questa chef slovena di cui non avevo mai sentito parlare.

Ho incontrato Ana Ros per la prima volta nel 2014 mentre partecipavo a una manifestazione gastronomica, EinProsit, in Friuli Venezia Giulia, a Tarvisio, al confine con la Slovenia. Ancora non sapevo che sarebbe diventata una delle mie manifestazioni preferite. Ci avevano annunciato una cena a circa 2000 metri cucinata dalle mani di questa chef slovena di cui non avevo mai sentito parlare. Di quella sera mi ricordo tre cose: il freddo polare, il tizio che suonava il flauto con le narici  e il sashimi di cuore di cervo e maionese di nasturzi di Ana Ros. Mentre assaggiavo quelle fettine di cuore ricoperte da fiori colorati, mi sentivo a tratti il cacciatore di Biancaneve e a tratti la stessa Biancaneve. C’era equilibrio e poesia tra la forza e la delicatezza del piatto, come per la natura e come quella che io trovo in questa chef dalla riccia chioma fluente, che è un mix incredibile di emozioni e sensazioni contrastanti che sa esprimere perfettamente nelle sue creazioni.
Ho avuto la fortuna di incontrare di nuovo Ana Ros sul palco di Identità Golose 2018 dove si parlava di fattore umano, e quello che ha voluto condividere con l’auditorium è stato illuminante. Un intervento coraggioso che affronta argomenti delicati con emozione ma senza retorica. Il suo arrivo sul palco è battezzato dal tentativo di tradurre con una parola italiana l’espressione pelle dura, scelta che poi ricadrà su caparbietà, e non credo che termine sia più azzeccato in questo contesto.
Inizia il suo intervento chiedendo di trasmettere a volume altissimo We are human dei The Killers:
<<And I’m on my knees looking for the answer
Are we human or are we dancer?>>
Lei è sicuramente entrambe le cose: a 17 anni pensava che la danza sarebbe stata la sua strada. Forse è proprio quell’impostazione che non le fa perdere l’eleganza quando comincia a fornire le indicazioni per cucinare la trota: “pesca la trota e uccidila”, ancora cacciatore e ancora Biancaneve. “Per 15 anni sono stata chiusa in cucina. Tra bambini e cucina non ho visto niente del mondo. Non sono stata a un concerto. Non sono uscita con gli amici, anzi ho delle amiche fantastiche che quando compiono gli anni aspettano anche un paio di mesi per festeggiare con me.” Ana Ros è figlia di un medico e di una giornalista, un’infanzia ambiziosa tra sport a livello agonistico, è stata anche nella nazionale di sci Jugoslava, ma allo stesso tempo ballava danza classica e contemporanea (ancora una volta si incontrano forza e delicatezza). Incontra l’uomo della sua vita che veniva dalle valli dell’estremo ovest della Slovenia, lascia le ambizioni della diplomazia internazionale e si mette in cucina da autodidatta già incinta del primo figlio e dopo 16 mesi diventa mamma anche di un secondo. Definisce i primi 10 anni della sua vita dietro i fornelli "massacranti, bestiali" per una giovane donna che non era abituata a questo tipo di vita e che doveva cominciare a costruire un’identità a se stessa e al ristorante partendo da zero. 
Non ci mette molto a farsi notare: comincia a cucinare nel 2003 e nel 2006 è già in giro per grandi congressi internazionali. Nel 2016 arriva Chef’s Table di Netflix e dal momento in cui il documentario viene rilasciato sulla piattaforma negli Stati Uniti, il 27 maggio del 2016, la sua vita cambia completamente: in 12 ore il sistema di prenotazione del ristorante Hiša Franko crolla: il sito web passa da 200 visite a 10.000 al giorno.
 “All’inizio sei contento, ti sembra di aver vinto il mondo, ma poi ti accorgi che è un volume di lavoro che non riesci a gestire” racconta Ana, “dopo due mesi il mio team era a terra, nessuno ce la faceva più. Non c’era energia, non c’era voglia di lavorare e nessuna motivazione.” Il loro era un ristorante di famiglia e il destino aveva scelto che dovesse salire di livello trasformandosi in un ristorante professionale con una lista di attesa di quasi due mesi. Non è facile.
Se non bastava l’attenzione dei clienti di tutto il mondo, nel 2017, a complicare la situazione, è arrivato anche il titolo di The World’s Best Female Chef assegnatole da The World’s 50 Best Restaurants. Ed ecco che ai clienti si aggiungono i corteggiamenti dei media: più di 500 interviste e 150 voli in un solo anno.

Le vittime sono state tantissime: sono stata costretta a mandare via la sous chef che è stata al mio fianco per 20 anni, ero la catalizzatrice di tutti i problemi di tutti. È così che sono crollata.”
Questo momento lo descrive benissimo Charles Dickens nell’incipit di Le due città:
<<Era il tempo migliore e il tempo peggiore,
la stagione della saggezza e la stagione della follia,
l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità,
il periodo della luce, e il periodo delle tenebre,
la primavera della speranza e l’inverno della disperazione.
Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi;
eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell’altra parte.>>
Ana Ros non è sicuramente una donna fragile, ma quando la squadra e il supporto vengono a mancare, le cose non possono funzionare. It takes a village, si dice in inglese, ci vuole un villaggio per crescere, per migliorare, per sopravvivere.
“Io sono una mamma, devo mandare avanti una professione e ho dovuto uscirne in qualche modo. E non è semplice quando guardi l’agenda e ti aspettano 3 interviste, i piatti da cambiare, il tuo team da motivare, senza poter prendere un’ora per te, quell’ora che ti separa dalla sopravvivenza.”
Per uscirne ha dovuto creare delle regole nella sua vita: va a correre, non comincia a pensare al lavoro prima delle 10 e ha ricominciato a uscire con le amiche. “Non vorrei essere uno chef sepolto nel proprio successo, vorrei solo essere felice di nuovo. Per tutta la vita noi chef siamo al servizio degli altri, ma se non siamo felici, quel servizio non lo possiamo dare”.
  Questo new deal le ha fatto guardare anche il suo team in maniera diversa: “Se una volta nella mia cucina si urlava, oggi vedo nell’alzare la voce il simbolo della nostra totale incapacità di gestire le persone.” In cucina quindi non si urla più, è stato creato un morning team in modo che il resto del personale possa arrivare più tardi, una volta al giorno tutti si interrompono per prendere una pausa, sdraiarsi sul prato, fumare una sigaretta, leggere un libro. A pranzo il ristorante rimane chiuso e hanno ridotto gli orari della cena. Ogni giorno durante la preparazione a turno si sceglie la musica da ascoltare. Non è un sistema facilmente sostenibile a livello economico, ma nella cucina di Ana è più importante la felicità rispetto alla sostenibilità. “La cucina esce da noi chef come la poesia dal poeta, possiamo essere distrutti e fare i piatti migliori del mondo, ma siamo sempre umani e dobbiamo affrontare e uscire da queste situazioni difficili”.

Gestire il successo non è facile. Quanti chef lasciano i ristoranti dove lavorano dopo aver ricevuto la prima stella Michelin, anche per il timore di non reggere la pressione o di stare al passo con le aspettative. Ma quanti si sono alzati in piedi in una sala piena di colleghi, addetti ai lavori e stampa per dirlo, quasi con orgoglio? Grazie Ana Ros per averci insegnato il fattore umano.
 

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